Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 09 ottobre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Diciassettesima Parte)

 

34. Galileo distingue le proprietà fisiche dalla loro percezione e, indagando il rapporto fra le parole e le cose, apre una strada che conduce a Wittgenstein. Impegnato nel comunicare in modo corretto ed efficace i risultati delle sue osservazioni e nel correggere gli errori degli altri astronomi, Galileo entra, senza averlo come fine intenzionale o scopo principale, nell’affascinante campo tematico del rapporto esistente tra la lingua pensata, parlata e scritta e la realtà esperita con i sensi. I suoi primi passi in questo territorio sconosciuto precedono in quegli anni quelli del medico e scienziato toscano Francesco Redi, che corresse alcune definizioni del primo vocabolario della lingua italiana, e del filosofo e matematico francese Blaise Pascal, che approdò a un tale rigore e a una tale chiarezza espositiva nei suoi studi matematici da costituire un esempio di precisione nella definizione linguistica di concetti logici e oggetti geometrici[1].

Pascal ebbe due sorelle, Giacomina suora a Port-Royal poi canonizzata col nome di Santa Eufemia, e Gilberta, autrice di lettere familiari tra le più belle di quel secolo, della biografia del fratello – tuttora fonte principale per la storia della filosofia – e del racconto biografico della sorella santa, in cui descrive il ruolo da protagonista di Eufemia nella controversia giansenista.

Nell’abbazia cistercense di Port-Royal, dove viveva Giacomina Eufemia Pascal, era nata un’interpretazione del cristianesimo basata sul credo della predestinazione alla salvezza, nota come giansenismo, e due fra i principali esponenti di questo movimento, Antoine Arnauld e Pierre Nicole scrissero la Logica di Port-Royal o l’arte di pensare: un trattato di logica concepito come un compendio contro ogni nominalismo, ossia l’errore contro il quale Galileo si era battuto per tutta la vita, e consistente nell’attribuire ad astrazioni semantiche la qualità di cose reali. La Logica di Port-Royal, entrata di diritto tra le maggiori opere del pensiero filosofico moderno, oltre ai tre capitoli classici dedicati a concetto, giudizio e ragionamento, contempla un quarto capitolo dedicato al metodo, che si rifà esplicitamente al Discorso sul metodo di Cartesio.

Seguendo la traccia di Pascal, troviamo in Francia una fucina di idee scientifiche nel circolo di Mersenne, dove si seguiva con interesse e attenzione il lavoro che stava conducendo Galileo Galilei. Oggi a stento qualcuno sa dell’esistenza dei numeri primi di Mersenne, cioè un numero primo inferiore di 1 rispetto a una potenza di 2, come il 3 o il 7 (22 1 = 3; 23 1 = 7), ma quando nel 1620 Marin Mersenne si dedicò allo studio della matematica e della musica con sodali del calibro di Pascal, Cartesio e Roberval, la fama da Parigi si diffuse in tutta Europa. Gille Personne de Roberval, matematico e fisico che godeva della stima di Pierre de Fermat e della personale amicizia di Blaise Pascal, ebbe la cattedra di matematica al College Royal e fu uno dei precursori del calcolo infinitesimale, assurgendo presto al rango di figura autorevole e carismatica, ma anche controversa, perché plagiò il metodo degli indivisibili da Bonaventura Cavalieri[2], un matematico milanese congregato dei gesuati di San Girolamo[3], ed entrò in un’aspra quanto mal fondata polemica con Evangelista Torricelli, rivendicando ingiustamente, ma forse in buona fede, la priorità sulla quadratura della cicloide.

Cartesio conobbe Mersenne nel 1622, un anno prima della pubblicazione del Saggiatore, e rimase suo fedele amico per tutta la vita. Quando decise di unirsi alle truppe del Principe Maurizio d’Orange a Breda, per combattere contro la Spagna, Cartesio affidò il controllo del suo patrimonio e la supervisione dei suoi affari a Mersenne[4], che intanto era diventato uno dei maggiori diffusori delle opere e delle idee di Galileo in Francia.

All’arruolamento a Breda, Cartesio fu assegnato a un’armata di cui facevano parte costruttori di telescopi, geometri militari, scienziati e medici come Isaac Beeckman[5], grande cultore di matematica, che in breve divenne suo amico[6]. Beeckman indusse Cartesio ad affrontare numerosi problemi matematici rimasti insoluti dal tempo degli antichi Greci, trasmettendogli la sua passione[7], ma soprattutto lo introdusse alla filosofia naturale di Galileo Galilei e gli illustrò la sua concezione del metodo scientifico.

Ora, per cercare di entrare nella dimensione mentale del tempo del Saggiatore, è opportuno che ci fermiamo a riflettere, sgombrando la coscienza da tutte le nostre consuetudini visive basate sulle molteplici forme di riproduzione tecnologica del mondo, dell’uomo, degli eventi, delle storie e dei fatti della vita, per tornare alla semplicità di un’esistenza percepita direttamente dai sensi, con la rara e statica eccezione della riproduzione artistica. Immergendosi immaginariamente in una simile condizione di esperienza essenziale sono più evidenti i termini del problema.

La realtà esiste per noi in quanto rappresentata nel nostro cervello dalla percezione e dalla concettualizzazione; entrambi i processi, uno per motivi sostanzialmente neurobiologici l’altro per questioni culturali, non sono repliche univoche e universali del mondo fisico e logico, ma approssimazioni in una gamma ristretta, che si prestano nel contesto sociale all’omologazione, ma lasciano anche spazio alla variazione individuale e alla libertà soggettiva.

Ciò vuol dire che il reale, pur immaginato in un’assoluta oggettività, quando entra nella nostra mente e poi vi esce rappresentato nella comunicazione può non essere identico per tutti e richiedere la verifica che si stia adottando una convenzione comune, ossia un registro interpretativo convenzionale condiviso che possa efficacemente surrogare la perfetta oggettività idealizzata.

Naturalmente, intendo il caso elementare di convenzione comunicativa su caratteri percettivi, come quando in una conversazione descriviamo, ad esempio, la bellezza dei colori e degli effetti di luce di un paesaggio a un interlocutore e, per essere certi che si stia formando un’immagine mentale corrispondente alla nostra esperienza, intercaliamo domande quali: “Hai presente…? Hai visto…? Ti ricordi…?[8]. I riscontri positivi ci rassicurano, e generalmente ci bastano, perché lo scopo è la condivisione approssimata di un luogo di intesa virtuale in una rappresentazione mentale. Cosa diversa è impiegare la percezione visiva per fare delle scoperte, ossia conoscere il nuovo, e impiegare la lingua per conferire loro identità e senso: in questo caso la descrizione deve essere tale da rendere in modo preciso e inequivocabile i caratteri distintivi dell’oggetto, al punto da poter sostituire la percezione diretta, e l’interpretazione non deve andare oltre la logica naturale, che si intende da tutti condivisa.

Galileo Galilei, analizzando le tesi dei suoi oppositori, è costretto ad affrontare questi due ordini di problemi: il primo costituito dalla distinzione tra le proprietà fisiche di un oggetto o un fenomeno e la sua apparenza percettiva; il secondo rappresentato dalla corrispondenza a volte problematica esistente tra la parola (nome) come struttura significante e il suo significato (oggetto), quale realtà indicata dal vocabolo. Proprio questo secondo tipo di problema, che ha particolarmente affascinato filosofi e logici del secolo appena trascorso, era particolarmente difficile da portare alla coscienza in un’epoca in cui lo sviluppo dell’arte della parola aveva talmente abituato le menti all’idea di un logos identificato con la psiche, che a nessuno veniva in mente di considerare il linguaggio come una struttura da analizzare in quanto tale.

La lingua, studiata tradizionalmente sotto il profilo della sua evoluzione diacronica, dalla sua complessiva origine all’etimo delle singole parole, nelle epoche più recenti è stata analizzata nella sua attualità d’uso, o linguistica sincronica, secondo due indirizzi principali, ossia l’approccio strutturalista, prendendo le mosse da Fernand De Saussure, e l’analisi cognitivista, inizialmente basata sulla grammatica generativa e trasformazionale di Noam Chomski. Gli studi di logica sono andati così avanti da giungere a riconoscere l’esistenza di un teorema di incompletezza di Gödel anche per il linguaggio[9], ma è stato Ludwig Wittgenstein a cercare, con le sue ricerche filosofiche, l’eliminazione di errori nominalistici e logici in filosofia dovuti a struttura e uso convenzionale delle lingue verbali.

Il modo in cui si pensava alla lingua nel Seicento è ancora lontano da questo grado di consapevolezza ed è fortemente influenzato dall’arte del suo principale modello d’uso, presente tanto nella cultura d’élite quanto in quella popolare, che in un’epoca priva dei nostri pervasivi mezzi di comunicazione di massa assumeva un ruolo unico e incontrastato: il teatro.

È il gioco di realtà traslata e figurata che assume in sé le risorse della retorica antica, gli accenti della poesia, l’esperienza del dialogo, la gamma completa dei volumi e delle prosodie della voce, la simulazione di atti e l’efficacia di effetti sullo spettatore, che ascolta e si immerge, guardando passivo, in un piccolo mondo non suo.

William Shakespeare ha indagato e sapientemente adottato ogni modo e tecnica di scrittura al fine di evocare sentimenti, sensazioni, emozioni, stati d’animo e riflessioni; riprendendo trame, contesti, vicende, pensieri e stili psicologici dagli antichi, e attingendo più alle tragedie filosofiche di Seneca che direttamente ai testi greci, ha costruito un mondo di personaggi da amare e odiare, coi quali identificarsi o entrare in conflitto, ma sempre attuali a distanza di secoli.

La ragione della loro attualità è la stessa del successo dell’autore, e consiste nell’espressione di radici antropologiche universali e immutabili: Shakespeare è ben consapevole di mettere in scena nel Re Lear, ambientato nella Britannia preromana dell’VIII secolo a.C., come in Romeo e Giulietta, ambientato a Verona nel Cinquecento, elementi essenziali dell’uomo, della vita e del mondo che trascendono le epoche, le culture e le mode[10]. È un maestro della parola, prima ancora che di teatro, è un’artista capace di far entrare, attraverso la codifica verbale, il prodotto del suo lavoro di immaginazione creativa e di immedesimazione psicologica nella mente di lettori e spettatori.

L’efficacia della sua arte si basa sul rapporto intimo, convenzionale e connaturato tra il significante delle forme verbali della lingua condivisa e il significato veicolato dal testo e dalla rappresentazione teatrale alla mente del lettore e dello spettatore. Presupposto indispensabile è l’apprendimento del linguaggio verbale durante l’infanzia, che fissa nella memoria del bambino il legame indelebile tra le parole e le cose, ossia la base necessaria per imparare a far senso del linguaggio e a entrare poco per volta nel suo ordine simbolico, che sarà introiettato diventando forma del pensiero. A questo proposito, ricordo che le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein si aprono con una lunga citazione da Sant’Agostino che, in una precocissima rievocazione autobiografica, ricostruisce il modo in cui la sua coscienza è entrata nella dimensione dei simboli comunicativi:

“Quando gli adulti nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse col nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto e dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emozioni che proviamo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così, udendo spesso le stesse parole ricorrere al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero i segni, e, avendo insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà”[11].

Dopo questo apprendimento precoce, accade a tutti che il linguaggio diventi tutt’uno col pensiero e ordinariamente scompaia dalla coscienza la realtà della lingua madre quale strumento acquisito. Oggi, dopo oltre un secolo di studi di filosofia del linguaggio e di logica linguistica, sappiamo bene quali insidie nascondano tutti gli arbitri di cui si nutre lo sviluppo delle lingue verbali, quali quelli legati agli idiomatismi, alle consuetudini, alle preferenze onomatopeiche e all’uso irriflessivo, ma nel Seicento si era lontani da questa consapevolezza. L’esempio di Shakespeare è proprio quello di un uso della lingua che non patisce di questi problemi di struttura del significante, perché si basa su una sostanza psicologica e antropologica universale, così che nelle traduzioni dall’inglese alle altre lingue europee il senso, il valore e la qualità delle opere rimangono inalterate.

Ma quando la lingua non è usata per suscitare stati della mente riferendosi o alludendo al patrimonio di esperienza comune, di sentimenti e conoscenza umana, e cerca invece la precisione descrittiva per definire e afferrare in un significato quanto di nuovo giunge ai sensi dal mondo fisico, allora i limiti come sistema simbolico, rispetto a quello dei numeri e dei disegni geometrici, appaiono evidenti.

 

35. Il Saggiatore pondera la Libra e, evidenziandone gli errori, indica il corretto procedere. Nel paragrafo 31, in cui dico di come Galileo cerchi i codici della realtà piuttosto che l’essenza della verità, ho riportato in una nota a piede di pagina il dettaglio su come nasca da una disputa con Orazio Grassi sull’origine delle comete[12] lo studio critico del 1623, sul quale desidero soffermarmi: Il Saggiatore o, più precisamente, come recita il titolo completo sul frontespizio, Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano. È in questo pregevole saggio che il matematico pisano e nobile fiorentino indica la necessità di distinguere tra effetti percettivi e reali proprietà degli elementi osservati, e discute l’importanza per lo scienziato di rifuggire da un uso letterario o retorico del linguaggio.

Prima di considerare in dettaglio i contenuti più rilevanti per la filosofia del metodo galileiano, è opportuno un breve riferimento al mutamento di quadro storico in cui avviene la pubblicazione.

Nel settembre del 1621 muore il Cardinale Roberto Bellarmino, grande plenipotenziario vaticano dell’Inquisizione, e dopo la sua morte il rischio di eresia legato al modello di Copernico non sembra più essere all’ordine del giorno. Nel luglio del 1623 muore Papa Gregorio XV. Il Cardinale Maffeo Vincenzo Barberini, nato alla periferia di Firenze in Barberino Val d’Elsa e grande estimatore di Galileo Galilei per aver assistito all’esperimento acquatico condotto in Palazzo Pitti di cui ho detto in precedenza, il 19 luglio 1623 entra nel Conclave da elettore e, dopo il 37° scrutinio, il 6 agosto ne esce Papa col nome di Urbano VIII.

Il clima culturale e politico appare rasserenato, i nemici di Galileo sembrano essersi placati e, nel giro di un anno, Urbano VIII si rivolge direttamente allo scopritore dei satelliti di Giove incoraggiandolo a riprendere lo studio, l’analisi e il confronto tra i massimi sistemi che teorizzano la struttura dell’universo.

Lo stato d’animo del Saggiatore, ossia di colui che valuta e giudica le idee espresse nella Libra, è dei migliori e tale da consentirgli di affrontare con sereni ragionamenti tutte le questioni sollevate, compreso un problema di percezione nell’osservazione delle comete, che ha ingannato Orazio Grassi.

Guardando a occhio nudo una cometa nel cielo notturno, si nota che è circondata da una sorta di alone luminoso allungato a formare una scia, la cui intensità sfuma e si dilata progressivamente: la cosiddetta coda della cometa, stilizzata dal tempo di Giotto su natività e presepi, e oggi riportata a due tipi principali, ossia a luce bianco-bluastra dovuta a gas ionizzati e generalmente conformata a fuso, oppure a luce giallastra dovuta alla costituzione in polveri che riflettono la luce solare e creano forme varie. Osservando questa scia al telescopio, Grassi nota che non risulta ingrandita e ritiene questo fatto dovuto alla distanza delle comete, deducendone un argomento a favore del modello geocentrico di Tycho Brahe, secondo il quale, come ho riferito in precedenza, le comete si muovono nelle alte sfere celesti, confutando la teoria aristotelica.

Ma Galileo, dopo aver rilevato l’imperfetto uso del telescopio da parte dell’autore della Libra, spiega che il mancato ingrandimento della scia delle comete è dovuto al fatto che si tratta di un fenomeno luminoso legato alla nostra percezione visiva e non un oggetto celeste che può essere ingrandito. In altri termini, la luminosità che accompagna la cometa non è ingrandita dal telescopio perché non esiste in quanto tale, ma è un fenomeno dovuto a condizioni che creano un effetto per la fisiologia percettiva.

Per chiarire questo concetto Galileo fa l’esempio del riflesso del sole che si specchia direttamente sulla superficie del mare, e nota che un osservatore in movimento su una spiaggia, pur modificando la propria posizione, continua a vedere quell’ampia fascia luminosa che dall’orizzonte va verso la riva, e può facilmente rendersi conto che non si tratta di un oggetto materiale localizzato in un punto preciso, ma di un effetto che dipende in egual misura da cause fisiche e ragioni percettive.

Galileo sente il bisogno di fornire un criterio sicuro per distinguere tra proprietà che realmente appartengono a un oggetto materiale del mondo fisico, risultando del tutto indipendenti dall’osservatore, e proprietà che dipendono dalla fisiologia dei sensi umani e dal linguaggio con le quali si concettualizzano. In tal modo intende anche superare, come fanno in chiave teoretica gli empiristi inglesi, gli inganni concettuali formulati come paradossi dai filosofi antichi. La riflessione condotta per anni gli consente di giungere alla precisa definizione delle proprietà reali dei corpi, che troviamo leggendo Il Saggiatore e possiamo così sintetizzare: configurazione geometrica, disposizione nello spazio, stati di movimento e numero delle parti costituenti i corpi.

Gli errori di Orazio Grassi costituiscono per Galileo un esempio paradigmatico dei rischi che corre l’uomo di scienza nell’interpretazione delle informazioni provenienti dai sensi e in un uso conformistico e non analitico del linguaggio per descrivere la realtà.

In questi due brani, Enrico Bellone sintetizza efficacemente alcune pagine galileiane: “Con il linguaggio gli esseri umani descrivono ciò che i sensi riescono ad afferrare quando esplorano il mondo esterno, e la descrizione attribuisce alle cose che stanno nel mondo certi insiemi di proprietà”[13]; “Ebbene, scriveva Galileo, questo rapporto tra il linguaggio, i sensi e gli oggetti è necessariamente tale da costringerci a prestare molta attenzione quando diciamo che una cosa possiede una data proprietà: quest’ultima, infatti, potrebbe essere una caratteristica dovuta unicamente al funzionamento di un nostro organo di senso”[14].

Galileo fa capire che per raggiungere la purezza del metodo scientifico è necessario un cambiamento di mentalità: si deve sempre aver presente la possibilità dell’inganno dei sensi, e infatti le comete sono in gran parte “simulacro” luminoso; non si deve ragionare a partire da formule, modelli e teorie concepiti per altri scopi, e infatti dice che Tolomeo e Copernico non si sono impegnati a scrivere di “distanze, grandezze, movimenti e teoriche di comete”[15]; infine, ribadisce che il discorso scientifico si deve tenere lontano da ogni suggestione di fantasia.

 Quest’ultimo ammonimento che, rivolto a Orazio Grassi, si legge così: “…stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’uomo come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero”[16], implica che non si adoperi la parola per generare effetti come fanno i letterati, ma si studi che la lingua adoperata sia in grado di rendere il vero che è la sostanza di ogni conoscenza.

Poco più avanti, Galileo porta l’esempio delle sue scoperte in cui ogni elemento, desunto con rigore logico dal dato empirico, può considerarsi come “vero e manifesto al senso”.

La critica a Grassi, che gioca con la lingua come fanno i letterati, prelude al celebre brano che ho citato in precedenza, in cui si dice che la filosofia è scritta nel grande libro dell’universo in caratteri matematici, ma va oltre, perché bandisce l’uso delle tecniche retoriche dal discorso scientifico. Questo è evidente se comprendiamo le sue indicazioni esemplari e non le consideriamo semplicemente dei giudizi severi sull’autore della Libra, che, dovendo analizzare una “materia così oscura e dubbia”, si era limitato a estrarre “un acuto sillogismo dalla peripatetica faretra”[17].

Siamo ormai lontani dalla follia di Tommaso Caccini che definiva la matematica “arte diabolica”, in una deriva disapprovata ma, a mio avviso, non sufficientemente analizzata nella specificità del suo errore. Come ho affermato in dispute pubbliche sul fanatismo islamico, l’uscita dal solco di ragione non è dovuta alla sola estremizzazione, ma principalmente allo spostamento del senso dalla sostanza dei principi alla autoreferenzialità della forma.

Per questo stesso motivo il fariseismo aveva perso e distrutto il vero cuore della spiritualità ebraica. La forma dei comportamenti rituali ha senso quale espressione della sostanza spirituale; se la forma è privilegiata, separata e sviluppata indipendentemente, come nella misura farisaica del numero di passi consentiti il sabato che prevale sul comandamento di amare il prossimo, si crea un’aberrazione rispetto alla religione[18].

Il demonizzare la matematica per difendere la validità di un modello cosmologico conforme alla discutibile interpretazione letterale di alcuni passi della Bibbia, supera, per entità della deriva, le prescrizioni farisaiche. Il Saggiatore, ossia Galileo stesso, può finalmente affermare che la lingua in cui è scritto il libro dell’universo è la matematica, e la comprensione di tale libro richiede l’esplorazione mediante il metodo scientifico, non la difesa preconcetta di un modello, come fa Orazio Grassi col sistema di Tycho Brahe. E nelle controversie scientifiche occorre che si presentino argomenti fondati su evidenze rilevate in natura e sottoponibili a verifica.

In questa appassionata difesa di quella che amo chiamare la purezza del metodo, Galileo sta combattendo una battaglia epocale che non sarà definitivamente vinta nemmeno nel Settecento, come si evince dai Principi di Scienza Nuova di Giambattista Vico[19]: l’eliminazione dalle trattazioni relative allo studio della realtà naturale degli stilemi della letteratura degli alchimisti eruditi, dell’uso della poesia, di narrazioni immaginifiche, di argomenti suggestivi, di miti, credenze e artifici per stupire e impressionare. Soprattutto, lo scopritore dell’isocronismo del pendolo vuole che nella ricerca si abbandoni lo stile creativo del mago, in cui il ricercatore gioca a confondersi con l’artefice del mistero naturale, come Giovanbattista Della Porta.

Il problema è di difficile soluzione perché non riguarda semplicemente le forme della prosa scientifica o l’opportunità di scegliere modi di studiare più efficaci, ma attiene propriamente a una mentalità consolidata in stile antropologico: il mago concepisce sé stesso come colui che sa, ossia il depositario di un sapere del quale è ermeneuta esclusivo con l’arbitrio di gestirlo a proprio piacimento. Potrà infatti tenerlo celato, accrescendo il proprio potere basato sul mistero, oppure rivelarlo a pochi eletti come negli arcaici riti iniziatici o, infine, rivelarlo alla gente ignara, trattandola come un pubblico da affascinare e sedurre. Al contrario, lo scienziato galileiano, oltre a porsi di fronte ai segreti della natura con la socratica consapevolezza di non sapere, concepisce sé stesso come colui che cerca e scrive prioritariamente per comunicare i risultati ottenuti, precisando i materiali e i metodi impiegati, così da ottenere confutazione o supporto da parte di altri ricercatori impegnati a verificare il lavoro compiuto, al fine di giungere ad una oggettivazione, sia pure relativa a un metodo[20].

Cosa avrà pensato Orazio Grassi leggendo la demolizione delle sue tesi alla luce di una teoria del metodo? Difficile dirlo. Non si può escludere che abbia riconosciuto nella separazione tra il procedere scientifico e il pensare ad arte un connotato del moderno, quel tratto che suscita il nostalgico rimpianto di Robert Musil in quel capolavoro che è L’uomo senza qualità: “Abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno”[21]. Ma, se così fosse, sarebbe stato in errore circa le intenzioni di Galileo, che indica nel puro metodo della scienza il modo migliore per conoscere, senza per questo abolire il sogno o il gioco che, con le loro licenze di libertà e fantasia, caratterizzano momenti diversi della giornata e della vita, così come atteggiamenti differenti dell’intelletto e della coscienza.

Senza contare che la ricerca rivela spesso una realtà che supera la fantasia e, in una semplificazione psicologica, possiamo dire che soddisfa esigenze adulte che nessuna finzione può efficacemente appagare.

Proprio la supposizione di una realtà che vada oltre l’immaginazione troviamo in Galileo quando afferma di non sapere “precisamente determinar la maniera di produzzion della cometa”, supponendo che avvenga in “modo lontano da ogni nostra immaginazione”[22]. E ancora oggi l’origine delle comete non è certa; si ritiene che siano residui della condensazione della nebulosa che diede origine al sistema solare e che, essendo fredda alla periferia, conteneva l’acqua in forma di ghiaccio, caratteristica di questi piccoli corpi celesti “chiomati”, come dicevano in greco gli antichi: kométes (κομήτης), che viene da kòme (κομη), ossia chioma.

Oggi si descrive l’elemento astrale come nucleo della cometa che, quando passa in prossimità del sole, si riscalda rilasciando gas che danno origine all’atmosfera che la circonda (chioma) e, a volte, alla scia luminosa (coda). La forma caratteristica delle comete è dunque dovuta alla radiazione solare e al vento solare che agiscono su un nucleo dal diametro che varia da poche centinaia di metri a decine di chilometri, ma genera una chioma che può arrivare fino a 15 volte il diametro della Terra e una coda che può superare i 150 milioni di chilometri dell’unità astronomica, ossia della distanza tra Terra e Sole. Questi numeri spiegano anche la visibilità a occhio nudo di molte comete che si avvicinano in orbita al nostro pianeta.

Il Saggiatore, come abbiamo visto, non è la semplice confutazione della Libra di Orazio Grassi, ma un vero compendio di teoria galileiana della scienza, che mi piace considerare come un’opera che integra il Discorso sul metodo di Cartesio[23], delineando i principi a fondamento della ragione e della prassi scientifica. Inoltre, non manca di riferimenti alle teorie cosmologiche.

Il nuovo Papa, pur apprezzando da sempre il lavoro del grande astronomo, non ha fatto abrogare la censura sul sistema copernicano, e dunque Galileo, in qualità di Saggiatore rispettoso dei precetti della Chiesa, propone lo stato dell’arte sulla concezione astronomica dell’universo in modo garbatamente problematico, come possiamo leggere in questa efficace sintesi di Enrico Bellone: “Non mi si può certo rimproverare, sostiene Galileo, se il mio desiderio di verità mi assilla. In fin dei conti, proprio per merito della divina sapienza della Chiesa, sappiamo che la descrizione copernicana del mondo è falsa. E, d’altra parte, il modello tolemaico non è ormai sostenibile. Che fare, allora, quando ci accorgiamo che, malgrado le poesie della Libra, anche l’ipotesi geocentrica di Tycho non spiega i fenomeni?”[24]

Il quesito ebbe una risposta nell’aprile del 1624, quando Urbano VIII, dopo aver letto il saggio, convocò in udienza Galileo: il capo della Chiesa lo incoraggiò a riprendere gli studi di analisi e confronto fra i massimi sistemi e a dare alle stampe i risultati dei suoi studi, rassicurandolo circa il fatto che il rilievo di ulteriori dati matematici a sostegno dell’ipotesi di Copernico non sarebbe stato censurato, a patto che la trattazione fosse rimasta nel dominio della dimostrazione matematica, senza dedurne conseguenze filosofiche.

Il Papa Barberini, entusiasta dell’incontro, scrisse poi al Granduca di Toscana Ferdinando una lettera di elogio dell’astronomo, che prolungò il suo soggiorno a Roma. Si ha traccia documentale che il Cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII e detentore di cariche influenti nelle gerarchie vaticane, abbia accolto con onori e doni in segno di amicizia lo studioso che aveva calcolato la rotazione del sole dallo spostamento delle macchie solari[25]. In quegli stessi giorni Galileo regalò a un altro porporato romano, ossia Federico Eutel di Zollern, l’ultima meraviglia tecnologica che lui stesso aveva perfezionato per esplorare il mondo invisibile a occhio nudo; uno strumento ingranditore che l’anno dopo l’accademico dei Lincei amico di Galileo, Giovanni Faber, propose di chiamare “microscopio”.

Prima che acquisisse il suo nome, l’astronomo pisano lo aveva regalato anche al Principe dei Lincei, Federico Cesi, definendolo “un occhialino per vedere da vicino le cose minime” e precisando: “Io ho contemplato moltissimi animali con infinita ammirazione: tra i quali la pulce è orribilissima, la zanzara e la tignuola sono bellissime; e con gran contento ho veduto come facciano le mosche e altri animalucci a camminare attaccati agli specchi, ed anche di sotto in su. Ma la V. E. avrà campo di osservare mille e mille particolari, de’ quali la prego a darmi avviso delle cose più curiose”[26].

Nel 1625 l’Accademia dei Lincei pubblicò il primo studio basato su tecniche microscopiche con il titolo Melissographia Lincea e la dedica a Papa Urbano VIII.

Intanto, già dopo l’incontro col Fiorentino successore di Pietro, Galileo aveva cominciato a lavorare a un libro che lo tenne impegnato per oltre sei anni, e il cui titolo iniziale era De fluxu et refluxu maris, poi cambiato in Dialogo sul Flusso e Reflusso dei Mari, e infine intitolato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-09 ottobre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Blaise Pascal (1623-1662) in tutta la sua opera dimostra che la chiarezza di pensiero, riflessa nella precisione d’uso della lingua per quanto possibile col rigore usato per i simboli matematici, accresce la coscienza di ogni realtà. Nelle Provinciali, capolavoro di satira e prosa polemica, usa il toscano spirito galileiano contro quel formalismo teologico che aveva smarrito il senso della morale cristiana nella ricerca di un compromesso con la nuova etica borghese sul terreno delle concessioni lassiste. Anche nei Pensieri, nella contrapposizione del suo spirito di finezza, costituito dall’esercizio pratico dell’essere spirituale attraverso l’intelligenza affettiva, al gelido e tagliente intellettualismo dello spirito di geometria, si legge l’alto grado di consapevolezza della realtà reso grazie alla precisione del linguaggio.

[2] Inventore di un metodo di proiezione assonometrica nota proprio come assonometria di Cavalieri. Fu allievo di Benedetto Castelli, grande amico di Galileo Galilei (v. §33 nella sedicesima parte), e Cavalieri fu aiutato da Galileo ad ottenere il lettorato a Bologna. Il suo metodo degli indivisibili ha rappresentato una tappa fondamentale per l’elaborazione del calcolo infinitesimale (cfr. Umberto Bottazzini, Infinito, Il Mulino, Bologna 2018).

[3] I gesuati di San Girolamo (da non confondersi con i gesuiti) costituivano un ordine mendicante che annoverava molti matematici tra i suoi frati, come Stefano degli Angeli, allievo di Cavalieri che difese e sostenne la teoria degli infinitesimi in aperto conflitto con i matematici gesuiti.

[4] Si veda la voce “Marin Mersenne” dell’Enciclopedia Treccani. Un documento che registra ufficialmente l’entrata di Cartesio nel circolo di Mersenne data 1625, ma sono documentati rapporti con i soci di molto precedenti.

[5] Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and How It Changed the World, p. 31, Free Press (Simon & Schuster), New York 2004.

 

[6] Secondo un’annotazione del suo diario, Beeckman aveva già conosciuto Cartesio nel 1618; in ogni caso, il sodalizio negli studi matematici nasce ritrovandosi nell’armata di Breda.

[7] Cartesio gli sarà grato, ringraziandolo per lettera più volte e poi dedicandogli il suo Compendium musicae concepito insieme, anche se poi, quando si incrinarono i rapporti tra i due, Beeckman dichiarò di esserne il vero autore. Beeckman, fra l’altro, nel 1614 aveva dimostrato la proporzionalità inversa tra la lunghezza di una corda di uno strumento musicale e la sua frequenza nella vibrazione, problema studiato in precedenza anche dal padre di Galileo Galilei.

[8] Non mi riferisco, qui, al ben più problematico livello della realtà dei fatti, intesi come vissuto di esperienza nel contesto umano. In quel caso può accadere che tre testimoni di un fatto forniscano tre versioni diverse, oppure che innumerevoli presenti uniformino tutti il proprio giudizio alla stessa visione, ad esempio per appartenenza ideologica.

[9] Il riferimento è ai due teoremi di incompletezza dimostrati da Kurt Gödel nel 1930; fanno parte dei teoremi limitativi, ossia teoremi che definiscono le proprietà che i sistemi formali non possono avere. Qui si fa riferimento alla formalizzazione dei limiti specifici delle lingue verbali, conosciuti in precedenza solo empiricamente.

[10] Le tragedie di Shakespeare continuano a ispirare in epoca contemporanea. Il celebre musical West Side Story di Arthur Laurents con musiche di Leonard Bernstein non è altro che un rifacimento di Romeo e Giulietta; Charles Marovitz ha rielaborato e stravolto Amleto, Otello e Macbeth; Eugene Ionesco ha proposto un truce divertimento nel suo “Macbett”, spunto anche per la satira politica di Barbara Garson; senza contare le feroci dissacrazioni di Giovanni Testori (Ambleto e Macbetto).

[11] Sant’Agostino in Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967; il brano è anche citato da Sergio Finzi (Il volto delle parole), Il piccolo Hans – rivista di analisi materialistica 42: 5, 1984.

[12] La cometa è un piccolo corpo celeste simile a un asteroide, prevalentemente costituito da gas ghiacciati, quali metano, biossido di carbonio e ammoniaca, associati ad acqua in forma di ghiaccio. Galileo dichiara di non conoscere l’origine delle comete e lascia intendere che il grado di conoscenza cui si è giunti sia insufficiente per formulare ipotesi.

[13] Enrico Bellone, op. cit., p. 77.

[14] Enrico Bellone, op. cit., idem.

 

[15] Galileo Galilei, Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano, Appresso Giacomo Mascardi, Roma 1623; anche cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 82.

[16] Galileo Galilei, op. cit., idem.

[17] Galileo Galilei, op. cit., idem; anche cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 81.

[18] Nell’Islam, ad esempio, la sostanza di evitare l’adulterio è superata dalla forma di evitare la tentazione per l’uomo coprendo la donna (in un’ottica maschilista), e giunge all’aberrazione del burqa introdotto inizialmente da un emiro afgano per le sue duecento mogli, e poi divenuto in Afganistan e Pakistan una prescrizione religiosa assoluta.

[19] Cfr. Giambattista Vico, Principj di Scienza Nuova (tomi I-III), Einaudi, Torino 1976. Condotta sull’edizione di Riccardo Ricciardi (Napoli, Milano 1953) a cura di Fausto Nicolini, riproducente fedelmente la redazione del 1744.

[20] La pubblicazione rompeva lo schema della cosiddetta comunicazione diadica fra ricercatori, inserendo come terzo soggetto in primo luogo il rappresentante del potere ecclesiastico, quale garante del rispetto della dottrina della fede.

[21] Robert Musil, L’uomo senza qualità, p. 66, Newton Compton, Roma 2013; cfr. anche tutto il brano con l’edizione “Einaudi”: Robert Musil, L’uomo senza qualità (2 voll.), volume I, 1981.

[22] Galileo Galilei, op. cit.; anche cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 76.

[23] Cartesio fu critico con Galileo circa le opere della maturità, considerandole imperfette perché svolte senza seguire l’ordine del metodo che impone innanzitutto la ricerca delle cause prime della natura e, solo dopo, delle ragioni dei fenomeni. Ma in questo caso era Cartesio a sbagliarsi, come dimostrò Isaac Newton, perché la ricerca ossessiva delle cause prime lo portò a “una dannosa metafisica”.

[24] Enrico Bellone, op. cit., p. 82.

[25] Le macchie solari sono aree circoscritte della fotosfera, la cui temperatura di circa 4000 kelvin rispetto ai 6000 kelvin circostanti le fa apparire scure; osservate telescopicamente per la prima volta da Johannes e David Fabricius (padre e figlio) nel 1610, furono individuate nello stesso periodo da Galileo che non sapeva dei Fabricius, che pubblicarono l’osservazione nel 1611, e ritenne di esserne lo scopritore, anche se Christoph Scheiner rivendicava la paternità della scoperta.

[26] Tratto dalla scheda “1624: il dono di Galileo a Cesi” dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (Museo Galilei) in Piazza dei Giudici 1, Firenze.